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Miniguida ad una economia felice.

Miniguida ad una economia felice il titolo del volume di Francesco Sarracino (Editrice Monti), giovane economista italiano che descrive i meccanismi che regolano l’economia comunitaria, raccontando che ruolo rivestono in questo sistema la fiducia, la riservatezza e la sobrietà. Ho letto il libro e l’ho contattato per una lunga intervista. Francesco è economista presso lo Statec, l’ufficio di statistica del Lussemburgo, ricercatore associato al Laboratory for Comparative Social Research di Mosca e al Gesis di Colonia.

Elisabetta: - Francesco, ho letto con enorme interesse la tua Miniguida ad una economia felice dove troviamo descritti molto bene alcuni concetti a me cari come il capitale sociale o il concetto di condivisione come manifestazione di una fiducia che porta ad un risparmio generale.

Mi piacerebbe proprio chiederti di spiegarmi in poche parole questo concetto: Fiducia = risparmio perché è il concetto che sta alla base del nostro servizio di Governante condominiale.

Francesco: Nel loro linguaggio a volte astruso, gli economisti hanno capito che le relazioni di mercato spesso funzionano grazie a qualcosa che per molto tempo essi hanno ignorato: le relazioni interpersonali.

Se tornassimo indietro, ai giorni in cui andavamo a fare la spesa alla bottega vicino casa, noteremmo che c'era molto di personale nella relazione tra noi – acquirenti – ed i venditori. Il venditore sapeva che trattandoci bene, consigliandoci i prodotti più adatti alle nostre esigenze, egli si sarebbe guadagnato la nostra fiducia e avrebbe ottenuto la nostra “fedeltà”. Al contrario, quando oggi andiamo a fare la spesa nei grandi supermercati – caratterizzati dalla spersonalizzazione delle relazioni sociali – non c'è nessuno che ci suggerisca qual'è il prodotto più adatto ai nostri bisogni. E' per questo che, nel mondo contemporaneo, abbiamo introdotto tante clausole volte a tutelare il consumatore e a garantirgli, per esempio, il diritto di recesso. Generalizzando un pò, ci si può convincere che le relazioni interpersonali – di cui la fiducia reciproca è parte e risultato allo stesso tempo – nutrono il sistema economico e gli consentono di funzionare bene anche in assenza di clausole contrattuali. Anzi, si potrebbe anche concludere che la miriade di vincoli legali, tutele e garanzie giudiziarie, certificazioni e bollini di qualità siano null'altro che dei sostituti delle relazioni interpersonali che hanno la funzione di segnalare al consumatore la qualità del prodotto che li riporta. Si pensi, per esempio, ai bollini di qualità sulla frutta: non sono altro che degli indicatori che sostituiscono lo scambio di informazione che ci sarebbe stato tra consumatore e venditore.

Laddove viene meno la relazione con il prossimo occorre adottare soluzioni istituzionali per garantire che la relazione commerciale giunga a buon fine. In altre parole, mentre in presenza di una fitta rete di relazioni sociali può bastare un mutuo ed informale impegno a concludere un contratto, in un mondo spersonalizzato, fatto di contatti sporadici e di rapporti a distanza occorre adottare contratti più o meno complessi per garantire a tutte le parti la tutela dei propri interessi.

E' in questo senso che, nell'articolo a cui fai riferimento, ricollego il concetto di fiducia a quello di risparmio. Se ho fiducia nel prossimo, non ho bisogno di escogitare complesse clausole contrattuali per tutelare i miei interessi, non ho bisogno di ingaggiare un avvocato o di monitorare e misurare la qualità del prodotto o del servizio che intendo acquistare; se mi fido dei miei impiegati, non ho bisogno di investire in sistemi di controllo e misurazione della performance – sistemi che peraltro riducono l'autonomia ed il benessere del lavoratore; se mi fido del prossimo, non ho bisogno di chiudermi in casa protetto dai più sofisticati sistemi di allarme; se mi fido degli altri, ho meno bisogno di investire in costose polizze assicurative; se mi fido degli altri, sono più tranquillo nel lasciare i miei figli di muoversi autonomamente senza temere che possa accadere il peggio. In altre parole, un sistema sociale ricco di fiducia nel prossimo è un sistema che ha bisogno di meno controlli e, dunque, di meno controllori. Per inciso, un tale sistema è anche più ricco di relazioni sociali, ed in esso la gente si sente più libera, autonoma ed è anche più felice.

Ovviamente, i sistemi di controllo e i controllori sono costosi: le tecnologie – come le videocamere a circuito chiuso, le casseforti, i cancelli, i vetri blindati e le polizze assicurative – devono essere acquistate ed installate, mentre i controllori devono essere pagati. Ebbene, se la fiducia reciproca permette di ridurre il numero di sistemi di controllo e di controllori necessari, ciò comporta dei risparmi che possono essere utilmente reinvestiti o nell'attività economica per generare ulteriore crescita o per altri fini, ad esempio per finanziare gruppi ed associazioni di volontariato.

Insomma, fiducia e istituzionalizzazione dei rapporti interpersonali sono due opposti che si sostituiscono: la prima richiede una buona dose di ripetuti contatti sociali, come la rete di vicinato; la seconda richiede maggiori impegni economici. La differenza è che i contatti sociali sono una parte integrante della natura umana, contribuiscono al benessere delle persone e sono gratuiti. Lo stesso non si può dire per gli altri casi.

Elisabetta: - Tu cosa ne pensi del nostro progetto? Sei un esperto di economia dello sharing, può funzionare?

Francesco: Le società moderne stanno adottando, con varie forme e varie soluzioni, numerose azioni per tornare ad un'economia più umana che sia anche profittevole. Ciò forse può condurre ad un minor giro d'affari, ma non di meno garantisce che i servizi siano erogati, i prodotti venduti e, in ultima analisi, che i bisogni delle persone siano soddisfatti. Io ritengo che un'altra economia sia non solo desiderabile, ma anche possibile. Lo dimostrano le attività di Mondo Comunità e Famiglia – per prendere un esempio nostrano – così come le attività di Banca Etica, di varie forme co-operative di assistenza e sostegno del prossimo e così via. Basta guardarsi un pò intorno per scovare ogni giorno una soluzione nuova con cui delle persone stanno fornendo una risposta a dei bisogni inevasi dalle tradizionali attività commerciali o soddisfatti a caro prezzo. Di recente ho scoperto una rete di volontari Californiani che raccoglie le biciclette che la gente butta via, le ripristinano e le rivendono a prezzi abbordabili. Una bicicletta non viene negata a nessuno: coloro che non possono pagare compensano con il proprio tempo riparando altre biciclette. Pensate che quest'esperimento non funzioni? Beh, ormai quest'esperienza prosegue da 10 anni, ha avviato nuove filiali in varie città americane, sta crescendo in Europa e di recente si è trasferita in una sede più grande che consenta di avere anche un pò di spazio espositivo.

Dunque, sono convinto che queste forme organizzative possano funzionare e siano sostenibili. L'unica cosa su cui vorrei attirare l'attenzione è la condizione che consente a queste iniziative di andare avanti: poichè esse sono fondate su una genuina interazione sociale, occorre sempre prestare massima attenzione e curare i rapporti interpersonali. La pressione, lo stress e la fretta sono le principali minacce alla riuscita di un simile progetto. La fiducia, così come l'amicizia, è un bene prezioso che richiede tempo e cura per essere costruito, ma può crollare come un castello di carte se non viene coltivata.

Elisabetta: - Io ho l’impressione che insegnare come risparmiare possa essere considerato non politically correct! Ci dicono che se i consumi diminuiscono non usciamo dalla crisi. Tu che pensi?

Francesco: Penso che se continuiamo a consumare a questo ritmo ripiomberemo presto in una nuova crisi. Non sto esagerando: di recente ho contribuito ad un articolo che presto dovrebbe uscire su una prestigiosa rivista scientifica inglese in cui, con i miei co-autori, sostengo proprio che la crisi del 2008 è frutto di un eccessivo consumo, dell'erosione delle relazioni sociali e della conseguente marketizzazione di quote crescenti delle nostre vite.

Il consumo eccessivo non solo è nocivo per l'ambiente – si noti, per inciso, come la parola sviluppo sostenibile e le emergenze ambientali siano tramontate dal 2008 ad oggi, seppure il mondo non sia cambiato – ma anche per le persone. Provo a fare un esempio: se per errore tamponiamo una macchina, dobbiamo riparare il danno. Dapprima contatteremo l'assicurazione, poi un perito farà la valutazione del danno ed infine il carrozziere riparerà la macchina. Ciascuno di questi passaggi – innescati da un incidente – è associato ad una transazione economica che viene registrata dai sistemi di contabilità nazionale contribuendo così al PIL e alla crescita economia. Un altro esempio: se malauguratamente ci ammaliamo e abbiamo bisogno di cure mediche, questa è una sventura per un uomo, ma un grande passo avanti per la società (parafrasando Armstrong). Infatti, le case farmaceutiche vedono crescere il proprio volume d'affari dalle malattie altrui. Ovviamente le malattie capitano, ma non di meno esse contribuiscono a generare crescita economica. Estremizzando: perfino la guerra è un potente motore dell'economia. Se possono fare tanti esempi in cui la crescita economica deriva da “mali”. Allora mi chiedo: siamo sicuri che una maggior crescita economica indichi necessariamente un maggior benessere? Molti studi suggeriscono che questo non sia il caso. Ma è bene chiarire che il mio punto non è “decrescere”, come suggerisce Latouche. Il punto è crescere in modo diverso, crescere in qualità più che in quantità. E soprattutto occorre chiarire in che termini “crescere”. Io penso che il fine ultimo delle società umane è garantire il benessere dei propri membri. Per far ciò non serve crescere a tutti i costi ed in modo indiscriminato. Occorre orientare i nostri sforzi verso ciò che fa star bene le persone, come ad esempio le relazioni sociali. Lo sviluppo delle moderne scienze sociali sta fornendo numerose indicazioni in questa direzione. Un mondo in cui i rapporti di lavoro, i sistemi sanitari, l'educazione e le città stesse siano organizzate in modo da migliorare la qualità della vita può essere un mondo in cui l'economia cresce – forse ad un ritmo modesto – ma in cui le persone sono più felici.

Elisabetta: - Tu sei un economista, noi abbiamo scelto la forma della cooperazione per Spaziocuore, che pensi del movimento cooperativo italiano?

Francesco: Vivendo all'estero da 4 anni posso solo dare una valutazione personale, ma non mi ritengo un esperto di co-operazione Italiana. La mia impressione è che il mondo della co-operazione si muova sostanzialmente a due velocità: da una parte ci sono i grandi gruppi capaci di agire come vere e proprie aziende tutelati dalla forma co-operativa. Penso ad esempio a quelle realtà in cui si adottano forme contrattuali di lavoro degne del peggior capitalismo, volte a sfruttare manodopera a basso costo perchè poco qualifica. Penso ad esempio agli inserimenti formativi: in teoria si tratta di nobili metodi per formare i soci lavoratori, però in pratica spesso e volentieri, finito lo stage torni a casa. Qui c'è poco dello spirito della co-operazione! All'altro capo vi è un universo di piccole e medie co-operative che fa seriamente e con convinzione il proprio lavoro, che tutti i giorni da risposte concrete alla gente.

Mi auguro che il legislatore sia in grado di distinguere tra questi due universi e riesca ad adottare politiche che sostengano coloro che fanno il proprio lavoro onestamente. In generale, ritengo che l'Italia sia un Paese dalle immense risorse sprecate dove si è imparato a vivere facendo a meno del merito e delle competenze. La parola “eccellenze” va tanto di moda di questi tempi e non dubito che in Italia si possano trovare casi di primordine, ma non saranno certo poche rondini a fare primavera. Basterebbe che ognuno in Italia si dedicasse a fare bene, con passione ed onestamente il proprio lavoro per dare una sterzata al nostro Paese. Al contrario le statistiche suggeriscono che ogni anno sempre più giovani lasciano l'Italia in cerca di fortuna all'estero. Di fronte a questi fatti, la retorica politichese serve a ben poco. Occorre seriamente e con umiltà ripartire dalle più piccole scelte della vita quotidiana abolendo i privilegi, i benefici di casta e tutti quei lacci e lacciuoli che frenano gli investimenti in capacità e competenze.  

Elisabetta: - Francesco, parlando di welfare state italiano, la mia impressione è che ci abbia portato ad una politica distributiva, risarcitoria, assistenzialistica, limitata quindi all’intervento monetario da cui per molti è difficile uscire. Tu come la vedi?

Francesco: Penso che hai ragione. Ma non è un male solo italiano. In un qualche modo in tutti i Paesi si preferisce curare i mali, piuttosto che prevenirli. Un perenne problema italiano è la carenza di strutture per la cura dei bambini e degli anziani. Basterebbe investire nella promozione di reti solidali di vicinato per stabilire forme – più o meno organizzate – per prendersi cura dei nostri cari. Invece si continua a non avere abbastanza asili nido o case di riposo; con costi di investimento esorbitanti. Mi permetto di ricordare, se fosse necessario, che troppo spesso queste strutture sono gestite in maniera inadeguata e, soprattutto per gli anziani, sarebbe molto più importante riuscire a prendersene cura il più a lungo possibile nel loro ambiente originario.

Elisabetta: - Se dovessi descrivere in poche parole una economia civile cosa diresti?

Francesco: Per me è un sistema sociale in cui c'è spazio per tutti, ognuno con le proprie specificità e differenze. Mi spiego meglio: il sistema economico occidentale – che è in voga anche nei Paesi dell'estremo Oriente – include solo coloro che vi si adattano meglio, coloro che sono disponibili a giocare secondo le regole di questo sistema sacrificando i propri interessi, le proprie passioni, le proprie vite sull'altare della prosperità economica. Coloro che non vi si adattano sono bollati come “disadattati”, gente strana, con idee strampalate da guardare con tenerezza. Io tendo a vederla in maniera diversa: forse coloro che chiamiamo disadattati o pazzi è gente che semplicemente non ha accettato di perdere la propria identità e originalità. Quanto dico non è nulla di nuovo: già Marx ci ricordava che i processi produttivi producono alienazione. Oggi il processo di alienazione è così pervasivo ed interiorizzato che la retorica si è invertita: sono alieni coloro che non seguono le regole del mercato, come se i mercati fossero la norma. Queste regole insegnano che per sopravvivere occorre essere più veloci, più aggressivi, più performanti, più flessibili, più competitivi.

Tuttavia questo modello non rispecchia la natura della specie umana che, come millenni di evoluzione dimostrano, è una specie co-operativa. Un singolo individuo è vulnerabile; un gruppo di persone può cambiare il mondo. E' per questo che i moderni sistemi sociali investono tanto nel plasmare individui ad immagine e somiglianza delle esigenze del mercato. Si pensi, per esempio, a quanto è cambiata l'educazione dei nostri figli. Progressivamente, negli ultimi 30 anni, la natura ed il senso dell'educazione scolastica è stata stravolta. Lo scopo dell'educazione è divenuto fornire, in pillole, delle nozioni ai nostri ragazzi. Gli scolari più brillanti sono coloro che riescono ad assimilare il maggior numero possibile di nozioni perchè – secondo la logica dominante – questo è quello che il mercato richiederà loro: sapersi adattare a sempre nuove condizioni apprendendo di volta in volta nuove istruzioni e applicarle alla perfezione. Questo è quel che viene richiesto ad un lavoratore moderno: essere flessibile, non avere diritti – che equivale a non avere dignità – e saper seguire le istruzioni dei superiori. Non si insegna più invece la creatività, la capacità di immaginare soluzioni nuove ed alternative, la possibilità di pensare in maniera originale, il perchè delle cose. Queste sono “skills” – per un usare un termine in voga – che sono demandate ad una ridotta elite, mentre la maggioranza deve seguire i sentieri tracciati da altri. In questo sistema è permesso pensare fin tanto che il nostro pensiero è nel cono dei pensieri ammissibili.

Ecco, io credo che un' economia sia civile se è in grado di rispettare e di integrare la diversità della natura umana. In altre parole è una economia che rimette al centro dell'attenzione l'uomo come specie e non il mercato. Ancora una volta, potrà trattarsi di un'economia che cresce più lentamente e che secondo i tradizionali canoni bolleremmo come perdente, ma sarà un mondo più felice e forse anche più sostenibile.

Elisabetta: - Mi dai una definizione di felicità?

Francesco: Felicità è ciò che ognuno di noi considera tale. Io, come economista, mi limito ad osservarla e misurarla usando tecniche statistiche applicate a concetti sviluppati e affinati nel corso degli ultimi 30-40 anni dagli psicologi sociali. La felicità è un concetto primitivo; ognuno di noi intuitivamente sa cosa lo rende felice e cosa no. Per quanto mi riguarda, quel che mi rende felice è stare bene con me stesso e con gli altri; trovare il tempo di dedicarmi alle cose che amo e alla cura di me stesso e di quel che mi circonda; la felicità è avere un sogno e la voglia di seguirlo.

Desidero ringraziarti per la tua curiosità e per le domande che mi hai rivolto.

In bocca al lupo per il tuo sogno. Date le tue motivazioni, sono convinto che poggia su basi solide.

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